Franco Pedrina

Giorgio Mascherpa

Sui ceppi e le ceppaie nella pittura dell’attuale dopoguerra si potrebbe agevolmente imbastire una mostra d’alto interesse, da Zigaina a Pignon, a Sutherland e un saggio critico-interpretativo affascinante. Basta considerare la posizione del ceppo come fonte di vita e di morte, come naturale scultura nel senso plastico e spaziale in cui s’avvolge; e ancora come raffigurazione simbolica di complessità interiore, di tormento, di angoscia, come volto e braccio e mano che si protendono antropomorficamente all’infuori. Né crediamo ovviamente con ciò d’aver completato l’immagine; basta visitare la bella mostra che Franco Pedrina (Padova, 1934) ha allestito alla galleria Milanese Bergamini per trovare una nuova, fresca interpretazione del tema, stavolta in chiave spazio-temporale ma superando le tentazioni informali e gestuali insite naturalmente nel tema, per una più organizzata composizione, per una più ritmata cadenza di pieni e di vuoti, il tutto impreziosito da un colore freddo, puro e cantabile come pochi. Non vi sono, del resto, soltanto ceppi e tronchi che paiono buerani; in ogni suo aspetto, la natura, così come la analizza Pedrina, si rivela una sorta di memoria remota e misteriosa, da racconto di mare, da Poe a Melville.

 

( 1975 recensione Galleria Bergamini Milano, su “Avvenire”, 12 dicembre 1975)

 

 

 


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